“Non saprei, ora chiedo, Signore”.
È successo tutto in pochi minuti, quando l’uomo in uniforme della Legione Straniera è entrato con risoluto passo marziale e ha sequestrato il bar su ordine del comando superiore per farne un centro vaccinale con possibilità di ampliamento delle funzioni a struttura adibita al reclutamento per carne da macello – ha detto proprio così – da sacrificare alla patria, una patria qualsiasi, in prospettiva dell’imminente conflitto.
“Quale conflitto?”, gli ha chiesto qualcuno, “C’è sempre un conflitto”, ha risposto, per poi aggiungere, “Per fortuna”, perché il conflitto, riassumendo le sue parole, tiene il corpo in allenamento e mantiene giovani, spazza via dalla mente quei patetici aneliti d’amore e di pace del molle artista sovversivo che alberga abusivamente sul putrido fondale dell’anima, altrimenti battagliera, dell’essere umano.
Sventolandosi il kepì di fronte alla faccia, ha ispezionato il locale. Poi ha detto “Dai qualcosa da bere al serbatoio di questa vecchia macchina da guerra che ha lasciato schegge di ordigno in ogni angolo del mondo. E tu, alloggia quel tavolo lì e siediti nell’angolo, sarai il braccio armato di questa campagna, mentre io mi sistemerò qui, accanto a questo vetusto telefono, che accende in me il caro ricordo degli apparecchi da campo, per comunicare in tempo reale col comando”.
Si è attaccato alla cornetta, ha composto un numero ed è scattato sull’attenti, poi si è messo una mano davanti alla bocca per celare il labiale a occhi indiscreti e ha alzato un sopracciglio per ribadire l’ordine alla barista, che ha preso la prima bottiglia a portata di mano e, con una certa cautela, si è avvicinata al militare, il quale le ha fatto cenno di versare generosamente, così come lui, ha detto coprendo il microfono della cornetta, così come lui generosamente ha versato il proprio sangue sulla piana di Mangurwandi o qualcosa del genere, perché, quando ha pronunciato quelle parole, sembrava che stesse mettendo insieme tutte le lettere che gli venivano in mente. Poi, quando la barista ha fatto per andarsene, lui ha indicato la bottiglia e, praticamente, insomma, le ha intimato di lasciarla lì, accanto a questo vecchio soldato, che ha sete inestinguibile di vittoria, “ragazzo, come siamo messi a siringhe? Signore, male Signore, il ragazzo non è ricettivo, non scatta” e, improvvisamente ha guardato la bottiglia e ha visto che sull’etichetta c’era scritto Artista, cosa che inizialmente ha interpretato come un affronto per poi invece ripiegare su una lettura più cameratesca, favorevole a uno spirito goliardico come il suo. “Sì, signore, mi sto giusto bagnando le labbra. Non saprei, ora chiedo, Signore”.
Ed ecco che arriviamo al punto. Il punto in cui fulmina la barista, inquadrandola col mirino di precisione dei suoi occhi, ed esclama perentorio “Ragazza, per te potrei privarmi della cravatta verde che mi qualifica come maschio fieramente celibe. Ma ora dimmi: che provenienza ha questo torcibudella?”
“Veramente è un amaro”.
Lui agita il palmo.
“Livorno”.
“Livorno…?”
“Livorno, Signore”.
“Molto bene. Ora si ragiona. Da Livorno, Signore. Ora dettaglio…Perfetto bilanciamento tra l’attacco delle erbe e il ripiegamento delle spezie. Impeccabile equilibrio, Signore, tra note di testa, fresche e consistenti, e una delicata amarezza. Molto, Signore, molto aromatico. Accenti floreali…spezie ed erbe. Un esercito di sensazioni mi va alla carica nel petto, Signore”.
In quel momento, un anziano entra nel bar e incrocia lo sguardo del militare, che riattacca immediatamente e scatta sull’attenti, per poi sgusciare fuori dal locale, scambiando un’occhiata d’intesa col ragazzo al quale aveva imposto di sedersi al tavolino.
“Ci siamo capiti”, gli dice.
“Veramente no”.
“Benissimo. Basso profilo”. E scompare.
- Photo: Guido Calamosca
- Model: Leo Mantovani
- Copy: Filippo Dionisi
- Location: Caffè Rubik
Acqua, 33 erbe ed estratti, note agrumate, spezie.