Una volta, non troppo tempo fa, sono andato a Genova e ho pensato che sembrava un po’ Napoli, con tutte quelle strade che salivano e si intrecciavano attorno a delle curve per arrivare fino a un punto in cui, se ti fermavi un momento per capire dove eri finito, in fondo al viale vedevi una rotonda, dalla quale poi partivano altre strade che probabilmente ti avrebbero riportato esattamente dov’eri. Oppure al mare. Era tutto chiuso, a parte un supermercato e un bar molto anni ’70, con l’arredamento in radica e i trofei di tornei di calcio vinti dalla squadra sponsorizzata dal bar stesso in un’epoca sommersa dalla polvere. Sono entrato e i tre vecchi che stavano nella saletta con la televisione non mi hanno degnato di uno sguardo, perché i loro occhi erano incollati allo schermo, dove trasmettevano la diretta del derby. Il barista, invece – che arrotolava lo straccio per asciugare un bicchiere appena estratto dalla lavastoviglie – mi ha inquadrato subito. Le sue pupille non mi mollavano.
“Per entrare in bagno, ci vuole la chiave. E si consuma”, ha messo immediatamente in chiaro.
“Qui, o consumi o te la fai addosso”, ha gridato uno degli anziani nell’altra stanza, mentre i compagni gli davano pacche sulla spalla e ridevano della sua sagacia.
“Se siete incontinenti, è un problema vostro – ha continuato il barista, scuotendo la testa – E comunque, ora è occupato”.
L’ho rassicurato sul fatto che il bagno non era nelle mie mire e che, piuttosto, avrei voluto assaggiare qualcosa di tipico ma la focaccia che vedevo sembrava chiedere aiuto da dietro la vetrina, il che non la rendeva particolarmente invitante. Quindi, ho ripiegato su una bevanda, un amaro, magari.
“Il Camatti”, ha urlato un altro dei vecchi nella stanza della tv, prima di inveire contro l’arbitro, che non aveva dato un rigore grosso come una casa.
Il barista appoggia il bicchiere e ribadisce “Sì, il Camatti. Lo vuoi?”. Faccio segno di sì e lui me lo versa. E mentre lo versa, grida “Oh, ma è uscito quello dal bagno?”
“No! – gli rispondono in coro i tre – È dentro dal 12esimo del primo tempo”.
“Ma tu guarda che mi tocca fare”, e, sbattendo lo straccio, si dirige con passo deciso nella saletta della tv, che dà accesso al bagno.
Lo seguo con gli occhi, quando mi sembra di sentire un grugnito da dietro al bancone. Cerco la fonte ma a un certo punto è lei che trova me. Una mano si aggancia al ripiano come una cima lanciata sul molo e, da non so dove, spunta questo tizio, vestito da capitano di un galeone. Sembra che stia facendo una fatica disumana, come se, per arrivare lì, avesse scalato una montagna intera. Digrigna i denti e mi chiede “Allora? Com’è?”. Non sapendo cosa rispondere, appoggio il bicchiere alle labbra e avverto il sapore della genziana, della china e dell’amaretto.
“Buono”.
“Lo sa – mi dice, sempre sforzandosi – lo sa che è ottimo contro il mal di mare?”
Faccio no con la testa e in quel momento torna il barista che, vedendo la scena, prende una scopa e colpisce l’uomo, come se fosse un ratto o un cane randagio. “Ancora qui? Ma dove ti eri nascosto, maledetto?”
“Presto! Sotto coperta!”, esclama quello, prima di inabissarsi di nuovo dietro al bancone e sgattaiolare a carponi, passando sotto le gambe del barista.
“Guarda che hai un debito lungo da qui al confine con la Francia!”
“Pagherò! È una promessa!”, urla solennemente il capitano uscendo dal bar.
“Sì, certo. Promessa da marinaio, per l’appunto”.
Dall’altra stanza, qualcuno grida “goal!” e niente ha più importanza.
FINE
- Photo: Paolo Angelini detto Fiore
- Model: Giorgio Comaschi
- Copy: Filippo Dionisi
- Location: Caffè Rubik
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