Me lo vedo davanti e subito mi immagino che la realtà sia in uno splendido bianco e nero, come dicono i critici che commentano i film, apprezzandone la fotografia. La sua è un’espressione triste, da Germania Orientale di fine anni ’80, e lui mi sembra uscito da un film di Wim Wenders, anzi proprio da “Il cielo sopra Berlino”, anche se la vicenda si svolge dall’altra parte del Muro. Vorrei chiedergli da dove viene, cosa fa lì, se parla la mia lingua, se per caso si ricorda di com’era prima del 9 novembre 1989 e come ha fatto a mantenersi così giovane, nonostante il tempo. Forse allora era solo un bambino, di quelli che andavano in vacanza stringendosi in una Trabant e praticavano il nudismo su spiagge inadatte a una balneazione che non avesse lo scopo di ibernare tutti gli arti, a partire dai piedi. Improvvisamente, alza lo sguardo verso di me, così – per dissimulare il mio invasivo interesse nei confronti della sua persona – appoggio gli occhi sulla bottiglia che sta davanti al suo bicchiere. Suppongo che stia bevendo quell’Amaro Succi e mi ricordo di aver letto di questo famoso Giovanni Succi, un tizio che a fine Ottocento si guadagnava da vivere esibendosi in lunghissimi digiuni. Praticamente, la gente pagava per andarlo a vedere che non mangiava. Il che è piuttosto surreale. Pare che ad aiutarlo ad attutire i cosiddetti morsi della fame, ci fosse questo elisir che aveva scoperto durante un viaggio in Africa. E che, una volta analizzato, questo elisir si fosse rivelato come un distillato di cannabis, morfina e cloroformio. Adesso siamo in due a fissare il bancone, con un’espressione quasi catatonica. Il barista comincia a preoccuparsi e mi sventola una mano davanti agli occhi, al che io prendo alla corda i miei pensieri e gli chiedo se per caso quello sia il famoso elisir di Giovanni Succi, quello che digiunava per più di un mese e che avrebbe ispirato un racconto di Kafka. Lui mi chiede che cosa c’è dentro l’elisir e, quando glielo dico, mi risponde che non crede proprio, perché ancora non c’è la fila fuori dal bar. Dice che però, in effetti, c’è una storia bizzarra anche dietro a questo amaro, che – anche se non ti stordisce – è buono davvero, per via dell’infuso naturale di erbe aromatiche, tra cui spicca il Cardo di Gobbo di Nizza Monferrato. Con la coda dell’occhio, cerco la complicità del presunto tedesco orientale, che continua a osservare il bancone come Bruno Ganz i berlinesi dalla chiesa di Charlottenburg. Il barista continua a parlarmi della storia dell’amaro e di come pare che la ricetta fosse stata scritta a matita sul retro di una porta ma io a quel punto sono totalmente divorato dalla curiosità di sapere di più sull’uomo che mi sta di fianco e decido di intavolare una discussione come si faceva una volta, offrendogli da bere. Quindi, dico “Un bicchiere per me e un altro per il mio amico.”. Il barista ride e chiede “Per chi?”. Guardo alla mia destra e non c’è più nessuno. Faccio finta di niente e rido anche io. Però l’ho visto. Era in bianco e nero.
FINE
- Photo: Roberto Chierichini
- Model: Jurgis Pilkauskas
- Copy: Filippo Dionisi
- Location: Caffè Rubik
Soluzione idroalcolica, zucchero 15%, infuso di erbe aromatiche 10%, aromi naturali.