“Non bisogna sottovalutare il vento”, dice a voce alta. Non vorrebbe ma lo fa. E mentre lo fa, intimamente, si lancia in una silenziosa teoria sulla base di quello che ha appena detto e immagina di essere percorso da venti incontrollabili, capaci di spingere fuori i pensieri che non si sono ancorati saldamente ai pali gelidi dei nervi.
Il barista asciuga un bicchiere già asciutto con uno straccio che ne conosce ormai a memoria i più remoti angoli cristallini, si forza a fingere di non aver sentito e cerca di non incrociare nello specchio che ha di fronte lo sguardo di questo avventore (l’ennesimo, si dice) che parla da solo. Nel frattempo, alza un sopracciglio e ispeziona il locale per individuare qualche espressione perplessa con cui condividere la sua idea che quell’uomo sia matto o forse ubriaco, ma non certo per colpa sua, visto che gli ha servito giusto un dito di un amaro pieno zeppo di erbe e neanche troppo alcolico, come verifica lanciando un’occhiata all’etichetta. Giusto il grado necessario a reggere la carica aromatica di 35 litri in volume di erbe secche su 100 litri di prodotto finito. Al contrario del cliente, il barista queste cose le pensa soltanto, come quando si fanno le operazioni a mente, le divisioni in una colonna astratta, le proporzioni per definire una percentuale apparentemente complicata. Mica come questa, 35 su 100, che farebbe 35%, anche se dietro c’è scritto 40, che dev’essere quindi un’altra cosa.
“C’è mai stato lei a Trieste?”, chiede, stavolta consapevolmente, l’uomo, fissando un punto qualsiasi sul pavimento, come se le formiche gli stessero mangiando le scarpe e lui non potesse farci niente, rapito dall’operosa voracità degli imenotteri.
Il barista si ferma di colpo, nel bel mezzo di un’operazione difficilissima, in cui, senza nemmeno rendersi conto si è perso, giusto per provare a se stesso le proprie doti di calcolo mentale, finendo per constatare l’evaporazione delle nozioni matematiche apprese a scuola. I loro sguardi si incontrano per un attimo nello specchio.
“Io sì”, continua l’uomo, temperando la punta dei baffi con le dita. ” Io sì”.
“Mi fa piacere”, sussurra il barista, perdendo nel riflesso gli occhi dell’uomo, che, tornando a inquadrare il pavimento, dice “a Trieste ci sono stato. A Trieste c’è la bora, un vento fortissimo e discontinuo”.
“Certo”.
“Le raffiche si chiamano refoli e l’aria scivola verso il basso. Il sole è ininfluente, non scalda, non fa in tempo. Quindi arriva la bora, che è chiara se il cielo è sereno e scura se è coperto”.
Il barista non sa più dove guardare.
“E io penso che il vento ti faccia diventare matto, se non stai attento. Perché fischia, ti fischia dentro, come una di quelle colonne sonore western. Ha presente?” e ne fischietta una.
Il barista annuisce e sorride involontariamente, perché è un grande fan di John Ford, di cui apprezza soprattutto il filone crepuscolare, poi sviluppato da Sergio Leone, ai film del quale sta effettivamente pensando quando l’uomo del vento parla del vento, del western e della musica fischiata dei film western.
FINE
- Photo: Alessandro Ficca
- Model: Davide Mattina Anedda
- Copy: Filippo Dionisi
- Location: Caffè Rubik
Acqua, alcol, luppolo, genziana, tarassaco, eucalipto, scorza d’arancio, assenzio, cannella.