“Hai detto qualcosa?”
“Io? Per carità”.
“Ah. Ecco”. E, facendosi indietro, continua a raccontare di quella volta che sono sbarcati a Marsiglia, lui è sceso e, già prima di uscire dal porto, i suoi compagni erano ubriachi e sottobraccio a donne e uomini che avrebbero contribuito con il massimo sforzo possibile a levargli dalle tasche i pochi soldi della paga. Lui no. Lui era uno di quelli che scendevano dalla passerella con in tasca un foglio scritto a mano delle cose da vedere, perché in fondo era quello il motivo per cui si era imbarcato, scoprire il mondo fuori da Eboli, che è bellissima ma giusto Cristo si poteva fermare a Eboli.
“Hai riso?”
“No, ci mancherebbe”.
“Perché è una battuta ma una di quelle battute amare. Che ti fanno ridere ma anche un po’ riflettere, tanto che poi rifletti e basta e ti passa la voglia di ridere”.
“Infatti”.
In realtà, il nano non rideva perché quella battuta l’aveva già incassata almeno quattro volte nell’arco del racconto e ormai, onestamente, aveva perso anche la voglia di ascoltare e si limitava a immaginare il pelato come un marinaio che si affaccia dal parapetto e guarda il molo allontanarsi, con qualcuno a terra che sventola il fazzoletto e qualcuno a bordo che agita il braccio. Se lo immagina con un berretto di lana in tasca e un mozzicone di sigaretta dietro l’orecchio.
“Eboli, insomma, ecco. E la cosa bella è che entro in questo baraccio vicino al porto, mi siedo al bancone, tiro fuori dalla tasca il mio foglio”
“scritto a mano”
“scritto a mano. E, a un certo punto, guardo gli scaffali, scaffali come questi, dove ci sono tutte le bottiglie del mondo, bottiglie come queste, e lì mi blocco, perché vedo una bottiglia”
“una bottiglia come questa”.
“come questa”. E tocca la bottiglia che ha davanti. “E mi viene un colpo. La indico, perché non so tanto bene il francese e il marocchino me la passa”.
“Marocchino del Marocco”.
“Si fa per dire. Maghreb, storia di colonialismo e immigrazione. Si capisce. Gli faccio segno di passarmi la bottiglia e lui me la passa ma non smette di fissarmi, forse perché ha paura che scappi con la bottiglia. Me la rigiro tra le mani, la bottiglia, ed è davvero, come mi sembrava, una cosa che avevo visto anche a Eboli. E sai perché l’avevo vista a Eboli?”
“Perché la fanno a Eboli”.
“Perché la…Aspetta. Te l’ho già raccontata?”
“No no”. Il nano ascolta quella storia per la quinta volta, perché sa che a un certo punto, come adesso, il pelato gli dirà
“Senti, senti qua. Amaro e nocino, con il caramello che addolcisce il sapore di erbe, spezie e mallo di noci”.
“Un amaro di tutto rispetto”.
“Infatti. Ed è incredibile come te ne vai per allontanarti da un posto e poi, quando sei lontano, quel posto ti manca e, appena puoi, appena c’è qualcosa che te lo ricorda, ti ci aggrappi come a una cima lanciata in mare. E insomma, faccio segno al marocchino di versare. Glielo dico col pollice verso il basso, solo che lui chissà cosa capisce e forse pensa che gli stia dicendo che quella roba fa schifo, che il suo locale fa schifo, che lui fa schifo, e quindi appoggia le mani al bancone e avvicina il muso al mio”.
“Il muso sarebbe la faccia?”
“Sì, la faccia. Ma è una licenza poetica, si capisce meglio. Un muso da cane un po’ arrabbiato”.
“Certo”.
“Non perché è marocchino. Tu, per esempio, basso come sei, sembri un bulldog, laggiù”.
“Un bulldog francese?”
“Uno di quelli che respirano così”.
“Così…”
“Un po’ con l’enfisema”.
“Sì, ho capito”.
“Che stavo dicendo?”
“Che volevi farmelo assaggiare, questo Don Carlo”.
“Eh?”
Il nano agita il bicchiere.
“Ah già”.
Ed è sempre così. Ogni giorno. Il nano alza il bicchiere, alla salute, e pensa che i ricordi sono terribili. Ti fottono il cervello.
- Photo: Alessio Schiazza
- Model: Donato Debellis
- Copy: Filippo Dionisi
- Location: Caffè Rubik
Acqua, infuso alcolico di mallo di noce e sostanze vegetali, zucchero, caramello.